Lo spirito musicale. Nietzsche e Schopenhauer: andata e ritorno (seconda parte)

Ho appena esposto, con le mie parole e probabilmente, in una certa misura, con le mie idee, l’estetica musicale di Schopenhauer. Ho detto in apertura che Wagner — la cui estetica essenzialmente romantica ed «espressionista», secondo la quale la musica è un mezzo per veicolare idee non musicali (drammaturgiche, filosofiche e persino mistiche) — non aveva capito nulla del filosofo che egli sosteneva di ammirare, soprattutto nella sua concezione estetica ed in particolare in quella musicale[1]. Wagner scrive: «Nessuno fino a Schopenhauer aveva filosoficamente e chiaramente riconosciuto e caratterizzato la posizione della musica in rapporto alle altre arti», come a dire al di fuori della gerarchia e al di sopra delle altre arti, la musica non essendo propriamente, secondo Schopenhauer un’arte, voglio dire un’imitazione, una riproduzione della realtà, ma la «quintessenza della realtà». Ora, Wagner non condivide affatto questo concetto, ritenendo, da buon romantico, che la musica sia un mezzo — efficace, ma comunque un mezzo — per esprimere molto di più che semplici note, voglio dire degli arrangiamenti di suoni nel tempo. Ed è proprio questo, come dicevo, che Nietzsche gli rimprovera, da un capo all’altro delle sue critiche. Così scrive ne Il Caso Wagner (§ 8) :

Wagner non era un musicista d’istinto. Lo dimostrò sacrificando ogni normatività e, per esprimerci con maggior precisione, ogni stile nella musica, per fare di essa ciò di cui aveva bisogno, una retorica teatrale, uno strumento dell’espressione, del potenziamento mimico, della suggestione, dell’elemento psicologico-pittoresco. A questo proposito Wagner potrebbe avere per noi l’importanza di uno scopritore e innovatore di primordine – egli ha aumentato smisuratamente la possibilità di linguaggio della musica – : è il Victor Hugo della musica in quanto linguaggio.

E poco più avanti (§ 10) :

La musica di Wagner è troppo difficile da comprendere? O forse egli temeva il contrario, che la si comprendesse troppo facilmente – che la si trovasse non abbastanza difficile? – Effettivamente egli ha ripetuto per tutta la sua vita una sola frase: che la musica non significa soltanto musica! Ma più che musica! … «Non soltanto musica» – non parla così un musicista.

La critica non è quindi di ordine filosofico in senso stretto (Wagner è rimasto piuttosto hegeliano, influenzato da Feuerbach e un po’ dal pessimismo, ma non dall’estetica di Schopenhauer). In fondo Nietzsche non sa che farsene di ciò che pensa Wagner, che peraltro pensa come la maggior parte dei tedeschi colti della fine del XIX secolo. Si tratta ancora meno di una critica di ordine drammaturgico, come sosteneva ad esempio Deleuze[2]. Ma è proprio del «destino della musica» che si tratta, ciò che Nietzsche afferma essere l’oggetto centrale, se non l’unico, dei suoi interessi (EP V, 930). Perché questo interesse per la musica così inamovibile nella mente di Nietzsche? O, più precisamente, che rapporto c’è — se c’è un rapporto — tra l’emozione musicale e l’approvazione incondizionata dell’esistenza? E perché la questione dell’espressione musicale dovrebbe essere al centro di questo problema?

Alla prima domanda è facile rispondere: se «l’arte è il grande stimolante della vita», la musica, scrive in Nietzsche contra Wagner, è per lui la «salute superiore». È l’emozione musicale, provata da Nietzsche fin dall’infanzia, sia nell’ascolto che con le mani al pianoforte, che gli permette di vivere, e più precisamente di amare la vita (si conosce il famoso motto scritto in una lettera a Peter Gast: «senza musica la vita sarebbe un errore»). Ne derivano così le risposte alle altre domande: è l’emozione musicale che, non avendo alcun rapporto con le emozioni banali, volgari, produce la forza, almeno in Nietzsche, come del resto in Rosset, che consente di approvare l’esistenza nella sua totalità, vale a dire nel suo carattere problematico. Infine, il problema dell’espressione è centrale perché, giustamente — per Nietzsche come per Schopenhauer — la musica è una specie di analogon, come ho già detto, della realtà che si tratta proprio di affermare. L’affermazione della musica non è affatto diversa dall’affermazione del reale: approvazione del carattere effimero, insignificante (inespressivo) dell’esistenza. Musica e realtà sono due modi di concepire una sola cosa: l’aspetto tragico di ogni realtà, in cui, per dirla con La Fontaine, «tutto è intriso di amarezza e di fascino». C’è solo questo, e non per molto tempo — ma «questo», se si presta bene l’orecchio, può apparire come un dono, tanto gratuito quanto meraviglioso.

La questione dell’espressione musicale sembra quindi rinviare alla questione dell’approvazione del reale. Nietzsche scrive più volte che la musica romantica (compreso Beethoven), invece di procurargli la forza di cui ha bisogno per affermare la vita, gliela sottrae. Abbiamo già spiegato perché: il romanticismo pretende che la musica sia un mezzo di espressione di qualcosa di diverso dagli arrangiamenti sonori nel tempo, cioè delle idee specificamente musicali. Ora, se la musica di Beethoven è spesso considerata — oggi forse più di ieri — come più «profonda» di quella di Mozart, è perché dovrebbe «toccarci» più intimamente, poiché si ritiene che Beethoven abbia messo a nudo le sue emozioni (personali) attraverso le sue composizioni. Allora cosa cerca il romantico amante della musica? Non delle idee musicali, non dimenticarsi di lui stesso durante il tempo di un brano, non di un’emozione propriamente musicale; ma tutto il contrario: cerca lui stesso nella sofferenza che il compositore dice di «esprimere» con la sua musica. Cerca di riconoscersi nella musica di Beethoven, che gli sembra composta per lui (per ricordargli il suo «io»: le sue emozioni, le sue idee, la sua vita passata), e così «soffrire al suo posto». Ecco cosa vuol dire il detto così frequente: «Questa musica mi tocca». Il romantico prende la musica per un linguaggio universale per mezzo del quale entra in contatto con l’artista, che si trova a sentire la stessa cosa dell’ascoltatore. Idea ben democratica, per non dire plebea, più adatta al teatro che alla musica[3]. E’ questo che spiega, per inciso, che l’adolescente medio, quando arriva ad apprezzare la musica (e non il rumore), spesso ama prima Beethoven, e che solo alcuni adulti riescono a raggiungere, aiutati dal tempo, a superare questa prima natura e a orientare le proprie orecchie a Mozart (che il bambino ama in modo più immediato).

Per contro, la musica considerata come musica, esprimendo solo musica, cioè idee musicali, appare suscettibile di produrre nuove emozioni, che ogni vero melomane conosce e cerca con avidità (il melomane è pazzo di musica: non la ama, la adora). Lungi dal cercare il proprio “io” nella musica, lo dimentica per sempre, o almeno per un momento. Durante l’ascolto musicale, si dimentica il mondo come la propria persona; ed è allora, almeno in parte, che l’affermazione diventa possibile. Il piacere appare così potente per chi sa accogliere l’espressione musicale, l’emozione così inedita e singolare che non assomiglia affatto alle sue emozioni abituali, che sarebbe pronto a rivivere tutto — «ogni dolore e ogni piacere, ogni pensiero e ogni sospiro e ogni cosa indicibilmente piccola e grande», come dice il geniale aforisma § 341 [trecento quarantuno] della Gaia scienza — per rivivere ancora il godimento musicale. Perché «la gioia è più profonda della tristezza», come si legge questa volta nella Canzone ubriaca di Zarathustra[4]. Allora, se la musica, invece di esprimersi, venisse ad esprimere le idee che ci rendono la vita insopportabile, e che intendiamo con ogni mezzo (idee di progresso, di speranza, di vita migliore, predicate dai moralisti di ogni genere, o sulla malinconia, la sofferenza, la redenzione, che perseguitano tutti gli spiriti romantici), allora la musica non rende più forte ma indebolisce. Si comprende quindi che la musica di Wagner «costa» qualcosa a Nietzsche invece di alleggerirlo; come fa invece la musica di Bizet, l’operetta di Offenbach e persino la Zarzuela spagnola, come ha ben dimostrato Bruno Dal Bon di recente[5].

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Così capiamo ormai che Nietzsche ha puntato il dito contro quel genere di critico, storico o commentatore d’arte (musicale o altro), che non cessa di perlustrare, di leggere «tra le righe» in cerca di un senso che si trovi al di fuori dell’opera, o criptato in lei, come se questo nascondesse il suo vero significato nella sua materialità — analisi che prefigurano quelle dei nostri fenomenologi e dei nostri psicoanalisti odierni. Perché ciò che fa una tale critica è interpretare invece di ascoltare, credendo di sentire, nel mezzo o dietro le note, il soggetto che le compone, vero oggetto del suo interesse. Contro questa «febbre di soggettività», come direbbe Ortega, già diffusa alla fine del XIX [diciannovesimo] secolo, Nietzsche scrive nella Genealogia della morale (§ IV):

In un caso come questo, che ha molti aspetti spiacevoli – ed è un caso tipico – mi sia concesso esprimere la mia opinione: è cosa ottima separare l’artista dalla sua opera, tanto da non prenderlo così sul serio come la sua opera. L’artista è, in fondo, solo il presupposto della sua opera, il grembo materno, il terreno, a seconda dei casi il fertilizzante e il concime su cui, da cui essa nasce – e di conseguenza, nella maggior parte dei casi, è qualcosa da dimenticare se si vuole godere dell’opera stessa. La conoscenza dell’origine di una opera interessa fisiologi e vivisettori dello spirito: mai e in nessun modo gli esteti, gli artisti!

Queste poche righe si trovano inquadrate dai critici nell’estetica di Wagner, ma anche di Kant e Schopenhauer. E se quelle che rivolge al compositore sono coerenti dal punto di vista di Nietzsche, mi sembra — per una volta, — che passi ingiustamente sotto silenzio un punto importante dell’estetica di Schopenhauer, che quest’ultimo riprende da Kant, e che è lungi dall’essere in contraddizione con il discorso sostenuto da Nietzsche nel punto citato. Voglio parlare dello status dell’opera d’arte in quanto oggetto, contrario allo spirito romantico ed ermeneutico che la rende una semplice produzione del soggetto, e come conseguenza, del tentativo di dare all’opera la capacità di una vera creazione di bellezza specificamente artistica (che, come ho detto, è all’origine dell’emozione specificamente estetica).

Per concludere, alcune righe riassumeranno il mio pensiero al riguardo. In primo luogo, nonostante tutto ciò che si può rimproverare in materia di estetica a Kant, che probabilmente non ne sapeva nulla, al punto che situava l’arte del giardinaggio sopra quella della musica, dobbiamo riconoscere alla sua Critica della capacità di giudizio un vero sforzo per comprendere l’oggetto d’arte in quanto tale, voglio dire come oggetto a parte, producendo un’emozione che non può tuttavia essere considerata, secondo Kant, come puramente soggettiva. Voglio parlare del [paragrafo ventidue] § 22, in cui Kant postula, come è noto, che «la necessità dell’adesione universale, che è concepita in un giudizio di gusto, è una necessità soggettiva, che sotto la presunzione di un senso comune è rappresentata come oggettiva». Poco importa qui la spiegazione che ne offre Kant, che non è veramente una, poiché essa «presuppone un senso comune» ben problematico, se non illusorio, inteso a rendere conto del giudizio di gusto che si vuole obiettivo; basta capire che ha intravisto questo. Cosa vuol dire Kant in una parola? Che è impossibile accettare che un individuo non aderisca al mio giudizio estetico quando affermo che la musica di Mozart è sublime; che è inammissibile che mi si risponda che si tratta di una semplice «questione di gusti o preferenze», e che questi siano relativi a ciascuno; che non si può tollerare che un uomo ritenga che sia lecito affermare, per esempio sulla musica, che ciascuno ha il diritto di opinare secondo quello che gli capita di amare — e che la musica di Bach e il rap si equivalgano «in sé». In una parola, che abbiamo il diritto di replicare a un tale uomo, se si mostra recalcitrante e ostinato, che non sa nulla della musica, o che è un idiota. Perché? Perché, come dirà Schopenhauer a suo modo, il bello artistico non ha nulla a che fare con la soggettività, che è sempre spinta dal desiderio (la volontà), che può solo valutare in termini di attrazione o repulsione. Trovo «bello» ciò che mi attira, dunque, ciò che risveglia il mio desiderio di impossessarmene, e «brutto» ciò che mi disgusta, dunque, ciò che risveglia anche il mio desiderio, benché di allontanarmene. In realtà, davanti ad un’opera d’arte, il mio desiderio non è sollecitato; l’oggetto non è là per me, per toccare me ricordando la mia vita e le mie emozioni. Egli è là per «piacere», certo, ma il piacere preso dalla contemplazione di un oggetto artistico — all’ascolto di un oggetto musicale, ad esempio — è un godimento di un altro ordine, come ho detto, che può suscitare solo un’idea artistica. Allora, per provare un’emozione estetica, è indispensabile mettere da parte la propria persona. Kant parla in questo senso — maldestramente —  di un «piacere disinteressato», e Schopenhauer di una sorta di «blocco degli ingranaggi della volontà» che, se non produce veramente piacere, ha comunque l’effetto di calmare la sofferenza.

Ora, penso che questo godimento estetico, colto sia da Kant che da Schopenhauer, e descritto in consonanza con le loro rispettive dottrine, sia precisamente ciò che Nietzsche stesso cerca di purificare da ogni sentimentalismo, da qualsiasi patetismo. È senza dubbio questo che egli intende dire nell’aforisma [centosei] § 106 di Al di là del bene e del male: «La musica offre alle passioni il mezzo di godere di loro stesse». Di loro stesse: non le mie, non le mie emozioni, ma l’emozione in quanto tale, vissuta sotto una nuova luce attraverso l’ascolto di una musica che, come ho già detto, mi è tanto vicina quanto estranea, un ascolto che mi avvicina a me stesso (alla mia emotività) tanto quanto mi ne allontana (perché l’emozione che vivo ascoltando un pezzo nuovo è sempre originale). Così, come scrive ancora Nietzsche un poco dopo (aforisma § 175 [cento settantacinque]), «si arriva ad amare il proprio desiderio e non più l’oggetto di questo desiderio». Se la musica — ma si potrebbe dire lo stesso di ogni forma d’arte vera — può renderci capaci di amare l’emozione per quello che essa è, e non perché è nostra o perché suppone un oggetto che potrebbe suscitarla (un amore, un successo, un momento felice), allora la musica è anche capace di portare all’approvazione dell’esistenza perché è esistenza, non perché è mia o perché è più o meno riuscita. Perché è proprio questo, come tutti sanno, l’amor fati che riassume in due parole la filosofia di Nietzsche: l’amore di ciò che è perché è — e non perché è questo piuttosto che quello.

È in questa intuizione generata dalla musica — la musica, come la vita, non esprime che se stessa[6] — che Schopenhauer costruisce da un capo all’altro la sua estetica, e mi verrebbe quasi da dire: la sua filosofia. Nietzsche rimane per sempre vicino al maestro. Dagli sviluppi sullo spirito musicale dionisiaco fino alle feroci critiche al wagnerismo, è sempre lo stesso ritornello che si sente: fare della musica altra cosa che la musica (e poco importa alla fine cosa), significa fare torto non solo all’arte capace di metamorfizzare il pessimismo in adesione — lo spirito tragico che Schopenhauer non raggiunse —, ma è anche, e per le stesse ragioni, fare torto alla vita, e alla filosofia che cerca di trasformarla.

 

 

[1] Contrariamente a quanto sostengono molti commentatori, per esempio, in Francia, Edouard Sans e Georges Liébert, o Thomas Mann, in Germania.

[2] Cf. Différence et répétition, P. U. F., p. 17-18 : « La rupture de Nietzsche avec Wagner n’est pas une affaire de musique… et si Bizet et meilleur que Wagner, c’est du point de vue du théâtre ».

[3] Nietzsche amava citare questa massima di Chamfort : « A teatro si punta all’effetto. »

[4] « À cause de cette unique journée, je suis pour la première fois content d’avoir vécu cette longue vie… » Et plus loin : « Car si le mal est profond, plus profonde encore est la joie. »

[5] Cf. La gioia sovrana, Mimesis.

[6] Je renvoie ici à mon Inexpressif musical, Encre marine.

 

Seconda parte della conferenza tenuta da Santiago Espinosa al Festival A due voci 2019