Lo spirito musicale.
Nietzsche e Schopenhauer: andata e ritorno (prima parte)

È noto che Nietzsche, leggendo Il mondo come volontà e rappresentazione  di Schopenhauer – così come Malebranche scoprendo il testo sull’Uomo di Cartesio – provò un profondo sconvolgimento emotivo e intellettuale;  e che in seguito divenne “schopenhaueriano”, così come poco più tardi divenne “wagneriano”; da quel momento in avanti e fino ai suoi ultimi scritti, non smise mai di prendere queste due fonti  d’ispirazione giovanili come bersaglio principale delle sue critiche più aspre, in contrapposizione alla sua filosofia. Dei veri e propri “antipodi”.

Per quanto riguarda la musica di Wagner c’è, tra il Nietzsche che si pretendeva esaltato da lui e quello che diceva di essere allergico, una rottura radicale, una separazione senza alcuna possibilità di ritorno. L’amicizia che hanno avuto i due uomini è stata spesso deplorata da Nietzsche, ma si capisce senza difficoltà che sarebbe diventata comunque impossibile, soprattutto dopo il trionfo di Wagner a Bayreuth. Quanto all’influenza teorica esercitata da quest’ultimo sul pensiero di Nietzsche, essa è praticamente nulla. Nietzsche si accorse rapidamente della distanza invalicabile che allontanava la sua filosofia — quella dell’approvazione incondizionata dell’esistenza, in buona parte attraverso l’arte — da quella di Wagner — che suggeriva una redenzione dell’individuo attraverso l’amore e il riscatto della sofferenza, attraverso l’arte che si sostituisce alla religione. I pochi mesi che durò questa amicizia, e la febbrilità con la quale Nietzsche eresse l’opera e la persona di Wagner nei suoi scritti, non furono tuttavia esenti da alcune forti reticenze che si possono già leggere nei frammenti postumi dell’epoca in cui scriveva La nascita della tragedia. In particolare, in questo, fondamentale, che sarà ripreso più volte nei pamphlets contro Wagner più di venticinque anni dopo:

La musica non può mai diventare mezzo, anche se la si percuote, la si tormenta, la si tortura: nei suoi stadi più rozzi e più semplici, quando è un semplice suono, un rullo di tamburo, essa già supera la poesia, degenerandola a suo riflesso. (FP, 1870-71, 7 [127]).

Poiché, in effetti, è proprio così che si può riassumere l’estetica di Wagner: la musica esprime qualcosa di diverso dalla musica, significa «molto di più che della musica». Il compositore scrive in Opera e dramma:

L’errore nell’opera lirica consisteva nel fatto che un mezzo di espressione, la musica, diventava un fine, mentre lo scopo dell’espressione, il dramma, veniva utilizzato come mezzo.

Mi soffermerò in seguito su questo punto di discordia, perché mi sembra che questo sia il nocciolo del problema per quanto riguarda il rapporto impossibile tra Nietzsche e Wagner, nella misura in cui implica due concezioni opposte della musica — concezione, del resto, che Wagner non condivideva, nonostante ciò che affermava, con Schopenhauer, con cui Nietzsche rimase, su questo punto essenziale, sempre d’accordo. Ma soprattutto perché è questo il punto nevralgico del problema che deve prendere in considerazione ogni filosofia della musica, e direi addirittura dell’arte in generale.

Santiago Espinosa

Cominciamo dunque con un sommario richiamo alla filosofia di Schopenhauer, e del posto che vi occupa la sua concezione della musica. Il mondo è duplice: essenza e manifestazione dell’essenza, come in Platone, Kant e, nonostante tutto quello che dice Schopenhauer, Hegel. In altre parole, i fenomeni — le apparenze con cui i fenomeni hanno una radice comune: Scheinen (apparire, poi Erscheinung, aspetto o fenomeno) — non sono la realtà vera, ma solo un’apparire-reale, un «sembrare essere» un «fenomeno di… (qualcosa) » — pura manifestazione di una realtà più reale che Schopenhauer associa ad una Volontà unica, l’essere vero di tutte le cose. Come l’Uno si manifesta in Plotino attraverso la molteplicità, che non è che un’emanazione dell’Uno, attraverso la quale esso si sparpaglia, si disgrega, si perde, così la Volontà, in Schopenhauer, unico individuo reale nell’universo, si dispiega attraverso i corpi individualizzati, pura «rappresentazione», attraverso i quali l’essenza invisibile diventa visibile.

Tuttavia, ciò che è proprio alla filosofia di Schopenhauer, rispetto agli altri «dualismi ontologici» citati, è che l’essenza, la volontà, è anch’essa, come la rappresentazione, una realtà immediata. E questo è assolutamente fondamentale, come vedremo, per comprendere anche l’estetica musicale di Schopenhauer. Dove, per l’hegelianismo, «ciò che si dà immediatamente non è reale», come scrive parola per parola Éric Weil, per Schopenhauer, invece non c’è nulla di più immediato dell’intuizione della volontà come essenza della rappresentazione. Il dolore del mio corpo — questa è la prima determinazione del concetto di volontà — non passa attraverso alcun mezzo per farsi sentire. Ma il mio corpo stesso, anche se mi sembra immediatamente reale, non è che una rappresentazione di questa volontà, una forma individuale di un’essenza senza forma, indeterminata. Come sappiamo, Schopenhauer ne trarrà tutte le conseguenze, già tracciate dal buddismo, di questa concezione di un desiderio impersonale all’origine di ogni cosa, e sono queste, — pessimismo, morale ascetica, nichilismo — che il grande pubblico, così come molti commentatori, assocerà alla sua filosofia. Non senza qualche ragione: Schopenhauer stesso pretende di credersi duro come il ferro — e questo contro la sua propria esperienza quotidiana, che gli dà torto soprattutto quando suona (ogni mattina) le arie d’opera di Mozart e di Rossini trascritte per flauto trasverso, e questo per sua stessa ammissione.

Non è là, almeno per me, che troviamo ciò che Schopenhauer ha di più originale o più interessante. Penso altresì che l’ammirazione che Nietzsche, anche all’inizio, provò per lui non si basasse neppure essa su queste analisi, un po’ troppo “diciannovesimo secolo”. Ciò che è più profondo nella sua filosofia è il rifiuto, e questa volta contro le filosofie di Platone, Kant, Hegel, di un’essenza razionale che renderebbe conto dell’irrazionalità del mondo fenomenale. La volontà — e ancora una volta non si può non pensare a Plotino — non ha ragione d’essere, per il semplice motivo che la ragione stessa ne è un prodotto e non può quindi renderne conto. Da qui, l’idea molto ricca che Freud riprenderà volentieri per suo conto: è il desiderio che rende conto della ragione, non il contrario. Va da sé che Nietzsche vi trova un’idea da cui raccoglierà, dopo averla rimaneggiata, molteplici frutti. Anzi, è la pietra che egli lancerà indietro al maestro: la «nolontà» (la negazione della volontà di vivere) non è, a dire il vero, il compimento della metafisica di Schopenhauer, ma piuttosto il punto di partenza. Tutta la sua filosofia sarebbe agli occhi di Nietzsche solo il lungo sviluppo di un desiderio nevrotico, intendo dire, di una rivolta quasi infantile contro la realtà.

Per quanto riguarda l’estetica, Schopenhauer fa insomma quello che fa quasi ogni filosofo: vede nell’arte un’illustrazione, una conferma, se si preferisce, della propria filosofia. Ricco di una vera sensibilità estetica e di una reale conoscenza artistica, Schopenhauer postula che l’esperienza della contemplazione estetica, che la sua filosofia vieta di ritenere soddisfacente (poiché il piacere non è una positività), ma che considera perlomeno come lenitiva, trova la sua spiegazione nel fatto che l’arte rappresenta, per niente (come in Platone) le rappresentazioni stesse: le manifestazioni individuali della volontà, ma piuttosto delle idee delle quali quelle (come in Plotino) sono l’espressione. Da qui la possibilità di contemplare qualcosa — un corpo nudo, per esempio — senza che la volontà individualizzata si metta in atto, sia per cercare di possederlo, sia per allontanarsene. Anche qui, e vi ritornerò, una concezione anti-romantica della bellezza artistica.

Ora la musica non entra nella gerarchia dell’arte che propone Schopenhauer[1]. Non è rappresentazione della volontà, quindi degli affetti o delle emozioni umane, ma è l’essenza prima, di cui tutto il resto è rappresentazione. Lei è la volontà in persona. La musica non rappresenta (non imita) nulla, esprime la volontà, il che equivale a dire che è la volontà che si esprime, come vuole tutta la sua filosofia: l’essenza non fa che esprimere se stessa. La rappresentazione (il dolore individualizzato) non differisce affatto da quello che rappresenta (l’essenza del dolore) — entrambi sono realtà immediate —, come le note espresse dalla musica non differiscono affatto dall’essenza della musica: essa non esprime che musica. In modo che «la musica potrebbe continuare ad esistere anche se l’universo [la rappresentazione] non esistesse». Ecco che riferisce di questo «effetto lontano» che si sente qualche volta ascoltando della musica, e che distingue l’emozione propriamente musicale dalle altre forme di emozione: l’emozione musicale non appartiene alla realtà della rappresentazione, cioè alla realtà individuale, alla realtà della mia persona. Ecco perché, scrive, se si potesse tradurre la musica in concetti, essa sarebbe tutta la filosofia.

Ricordiamo che Schopenhauer si serve allora del vocabolario della scolastica: «Sembra che i concetti astratti siano gli universalia post rem, che la musica riveli gli universalia ante rem, e che la realtà fornisca le universalia in re». Ma come comprendere questa affermazione, visto che Schopenhauer non ha cessato di insistere sul fatto che la musica è la volontà, cioè la realtà: l’in re e non l’ante rem? Se la musica non è mimesis [imitazione della realtà] ma analogon della volontà [similare alla realtà] prima di diventare mondo materializzato, come la volontà può essere contemporaneamente ante rem e in re? In passato mi sono soffermato su questo problema, ispirandomi ampiamente alla soluzione che il filosofo francese Clément Rosset proponeva di questo paradosso, nella quale trovava una chiave preziosa che rendeva conto dell’assurdità della volontà — che non vuole in fondo nulla, o piuttosto vuole solo se stessa—, e allo stesso tempo il problema che la filosofia della musica di Schopenhauer non può evitare: come spiegare che la musica esprime la volontà e non fa soffrire  per tutto ciò[2] ? Egli sosteneva che la musica, essendo ante rem, era anche, in tal modo, ante voluntatem: la musica indicherebbe una realtà «diversa» dalla volontà, anteriore ad essa, un «oscuro precursore» che renderebbe conto dell’«elemento volente», che manca proprio alla volontà e al mondo, e che allo stesso tempo spiegherebbe l’emozione gioiosa che si prova ad ascoltarla o a suonarla. La volontà non può dunque essere «una», come ripete il filosofo un po’ ovunque nella sua opera, ma, secondo Rosset, la volontà di cui parla Schopenhauer «nelle sue analisi musicali» non sarebbe «la volontà di cui parla ovunque nella sua opera». La volontà sarebbe doppia: prima di essere mondo, e come mondo.

Oggi, ritornando su questo vecchio problema, mi sembra che sia molto più facile da chiarire di quanto non lo vedessi allora, e mi sembra di averlo già chiarito dicendo che ciò che la volontà esprime è se stessa, che volontà e rappresentazione sono una sola ed unica cosa, anche se considerate da due punti di vista diversi. La volontà ante rem è l’essenza della volontà, ciò che è essenzialmente la musica; la volontà in re è la stessa volontà, ma individualizzata, rappresentata, la musica ascoltata da qualcuno, se volete. La volontà non sarebbe dunque molteplice, ma una. La volontà, come la musica, come dirà molto bene Stravinsky più tardi, non esprime dunque nulla — se non se stessa. Quando il compositore dice che «la musica è inespressiva[3] » (incapace di esprimere o di imitare emozioni, paesaggi, eccetera), intende dire che la musica esprime soltanto idee musicali, che provoca solo emozioni musicali. Ora, questo è esattamente ciò che afferma Schopenhauer: la musica non è anteriore alla realtà, è la realtà, anche se può essere considerata come essenza (volontà ante rem) o come rappresentazione (volontà in re), il che significa che il «materiale» che costituisce essenzialmente la musica — l’emozione — non è esattamente quella che si ritrova nel mondo individualizzato —; le emozioni quotidiane e banali degli uomini —, anche se la musica è sentita come emozione. È proprio in questo che Schopenhauer non è un romantico: la musica non è una semplice imitazione o espressione delle emozioni degli «individui creati in fabbrica», dell’«uomo-massa» che disprezza, ma la produzione di un’emozione specifica e originale, propriamente musicale, che ci capita di sentire come se venisse «da un altro mondo». Questa interpretazione getta d’altronde una luce sull’emozione che egli stesso provava per sua stessa ammissione — «la musica è la cosa più deliziosa» — senza che la trovasse in contraddizione con il resto della sua dottrina.

[1] Cap. 52 da il Mondo come volontà e rappresentazione.

[2] Cf. L’Esthétique de Schopenhauer et Schopenhauer. Philosophe de l’absurde, P. U. F.

[3] Cf. Chroniques de ma vie.

 

Prima parte della conferenza tenuta da Santiago Espinosa al Festival A due voci 2019