Interpretazione musicale: esecuzione o creazione? | Filosofia dell’interpretazione musicale

Che cosa significa interpretare, musicalmente parlando? 
Interpretare è fondamentalmente eseguire, o fondamentalmente creare?
Due pensatori italiani minori, Alfredo Parente e Salvatore Pugliatti, entrambi di ascendenza crociana, ovvero di formazione neo-idealistica, si sono misurati con il secco quesito che dà titolo a questa puntata e alla seguente: essi rispondono in modo lapidario, unilaterale, con qualche sfumatura di ingenuità (nessuno dei due ha mai svolto la professione di musicista), e reciprocamente antitetico. La posizione di ognuno ci interessa per motivi filosofici: da un lato per la radicalità d’atteggiamento; dall’altro per l’incompleta presa d’atto delle conseguenze di tali posizioni, da parte di entrambi: presa d’atto e conseguenze che cercheremo di evidenziare e sviluppare, anche sulla base di esperienze più vicine a noi.

Il Parente e il Pugliatti si inseriscono in un dibattito intorno alla questione della interpretazione musicale già fiorito in Italia agli inizi degli anni Trenta, quando le figure del compositore e dell’interprete cominciano a delinearsi come specializzate ognuna nella propria vocazione, sempre meno convergenti in una sola personalità. Il compositore non di rado batte una sofferta o problematica via di ricerca: contestatore alla scoperta di nuovi linguaggi, erede (bon gré mal gré) di passi irrevocabili già compiuti nella storia della musica e dell’arte, spesso ramingo e isolato e incompreso dalle grandi società di concerti, si rifugia (complice una situazione internazionale delicatissima) in uno sdegnoso esilio simbolico. L’interprete, dal canto suo, è preso al laccio delle sirene dello star system; divo e virtuoso capace di raggiungere il grande pubblico attraverso viaggi veloci e incisioni discografiche sempre più accessibili, si rapporta, molto più che ai compositori suoi contemporanei, alle grandi organizzazioni teatrali, agli agenti e agli impresari, inclini, in linea di massima e fatte salve alcune felici eccezioni, a favorire i gusti di un pubblico imborghesito e non disponibile a sperimentazioni su scala collettiva. 

Su questo sfondo si delinea all’orizzonte il senso, lo scopo, la missione dell’interpretazione musicale quale atto anche indipendente da legami con compositori in vita: come rapporto con la Storia, con i semata, con la letteratura, la psicologia della folla, e con altre arti e forme del pensiero.

Alfredo Parente, diretto allievo di Benedetto Croce, si dice convinto del fatto che l’interprete esegua.  E che debba solamente e precisamente fare questo, sia nel momento edificatorio dello studio che in quello esteriore e narrativo del concerto, nella piena e continuativa coscienza del suo devoto compito: compito  secondario e ancillare rispetto al momento creativo, appannaggio del solo compositore. Compositore e interprete abitano, per il Parente, differenti dimensioni dello spirito. Beninteso: anche il recinto dell’interprete è un temenos sacro, con una sua castità e una propria specifica, ieratica, indispensabile missione. E tale missione consiste nel far tralucere il senso d’assoluto o, più rischiosamente, la scintilla divina che il mistero della creazione musicale porta con sé. Come? Secondo il Parente, ciò può avvenire solo attraverso esecuzioni tecnicamente impeccabili ove l’interprete si impegni a rispettare ogni segno che il compositore indicò: senza voli mimetici, senza sconfinamenti comunque strutturalmente impossibili, ma con una speciale devozione sacerdotale. Perché? Perché, crocianamente, il Parente (e molti altri con lui) ritiene forte il legame tra composizione ispirata e trascendenza più che umana. E permane il pregiudizio di secondarietà intorno a ciò che è macchiato di materialità, di tempo, di contingenza, di finitudine.

Lo si ricorderà: per Croce chi crea sperimenta un intuere.  L’artista creatore è il primo recettore di un’idea intercettata e contemplata nella sua cristallina purezza, nella quale egli figge lo sguardo. In ciò consiste la concezione dell’opera: che è già opera, ente: ma avulso, nella sua purezza sorgiva, da qualsiasi contaminazione materiale e persino alieno, in origine, da destinazione a un’arte ben precisa. 

Ora ciò è per noi estremamente difficile da accettare. In innumerevoli luoghi Massimo Recalcati, per fare un solo autorevole esempio, commentando negativamente e in generale ogni concezione rigidamente spiritualistica dell’arte, obietta ciò che per noi musicisti è ovvio: arte (téchne) è sempre ispirata da materia. Anzi, è la materia stessa che vi esprime: libera, determinante. Soprattutto in certa arte contemporanea – si pensi solo, in campo musicale, a Structures di Boulez – la materia è effettivamente legge a se stessa; e agisce e preme, quasi strutturalmente indipendente dalla volontà del soggetto creatore. Questi ne segue le volute, gli ingressi prepotenti e problematici nella dimensione comune del sentire e del percepire. Come si farebbe poi a concepire l’idea – di qualche cosa che Croce chiama già opera d’arte – come totalmente avulsa persino dalla destinazione a una delle téchnai, appare alquanto bizzarro. E ciò soprattutto per la musica, che vive di interpretazioni; e che non si appaga del solo stadio contemplativo, ma desidera – altrimenti non sarebbe musica – scendere e contaminarsi nella materia sonora, nel timbro, nella comunicazione, nell’esperienza dionisiaca di cui essa consiste.

Eppure la posizione del Parente (che traduce sino alla musica ciò che Croce dice dell’arte in generale – non ammettendo, la sua filosofia, nemmeno distinzione in generi artistici) brilla di una certa nobiltà. 

Notiamo l’affinità con la disposizione d’animo di alcuni tra gli interpreti più sinceramente mossi da grandi idealità. Quando Arturo Benedetti Michelangeli dice:  “Io non sono che un artigiano coscienzioso; e come tutti gli artigiani so che mi occorre uno sforzo continuo, un lavoro mostruoso” – oppure: “Suonare non è una professione: è piuttosto un modo di vivere; non vuol dire vestirsi da pinguino e presentarsi di fronte a un pubblico che applaude, ma è qualcosa che va molto al di là, e per la quale è necessario soprattutto un grandissimo spirito di sacrificio” – e ancora: “Gli applausi non vanno a me, ma a Beethoven, Chopin, Debussy. Io non c’entro”  – ebbene tali parole, diremmo ognuna e tutte nel loro complesso, esprimono qualche cosa di simile a ciò che sostiene il Parente, e lo compiono. Michelangeli è l’ascetica convinzione di un servizio, è la fulgida risposta a una specie di vocazione monastica di cui gran parte della sua vita personale consisteva. Solitudine, concentrazione saturnina, lentezza certosina di sguardo e di parola; mani spesso giunte; estremo pudore di sé, riservatezza al limite – spesso varcato – della scontrosità – eppure grande pietà umana, generosità, bontà. Ancora, artisticamente: sguardo fisso sul modello da riprodurre, come in una preghiera, ogni giorno, ogni notte; immobilità ieratica e lunare durante il concerto pubblico; attitudine alla contemplazione coltivata in silenzio, e spesso sino allo spasimo; consacrazione a una perfezione da perseguire con abbondante dose di senso del dovere e di strutturale umiltà. “Non devo sbagliare. La gente paga per venire a sentirmi. Devo fare come il cameriere [sic!] che, pattinando a grande velocità tra un tavolo e l’altro, non fa cadere nemmeno una goccia di caffè…”. Dunque la dimensione funambolica, l’abilità manuale ricercata con metodica e ascetica furia, sino ad eliminare la più piccola traccia di sforzo (diremmo di lui, con Goethe: “…La sua arte diventa, poco a poco, Natura”), con scarsissima pietà per se stesso, con volontà stoica e indomabile di studiare, è per Michelangeli dovere morale, tributo all’Arte. Contemporaneamente, come si evince dalle sue parole, egli coltiva un sogno: il sogno di sparire, di rendersi trasparente – lui, così carico di fascino fisico e di prestanza – così ammirato e amato, e letteralmente inseguito dal pubblico femminile! Deve, vuole fortissimamente far posto alla Musica in cui, ritiene, ogni residua risorsa fisica e morale dell’interprete deve convergere. Sempre: quando si è reduci dal fronte antifascista e si è esposti alle emottisi per via della tubercolosi; quando si è in lutto per la morte dell’amato padre; quando si è in esilio, fuori dal proprio Paese; quando si lasciano gli affetti per obbedire alla superiore causa della musica, e ai suoi dettami implacabili. 

C’è della religione, della sofferenza sublimata e della fedeltà estrema ed eroica, in tutto questo.

https://www.youtube.com/watch?v=TlQsfSdIomk

Che meraviglia! Mondi assolutamente interiori, nostalgici e prevalentemente notturni, guidano e cristallizzano l’immaginario interpretativo di quest’uomo così singolare… 

https://www.youtube.com/watch?v=JccVkwM2Nag 

…E, osservato da vicino, appare chiaro che la barriera della discrezione e della riservatezza è rotta, accompagnata da una intensità eccezionale, che si riflette nel volto e in molto altro… 

Bisogna che torniamo sulla terra, se vogliamo chiudere questa chiacchierata!

Filosoficamente parlando, la concezione che il Parente sposa e che molto deve a Hegel, porta con sé almeno una conseguenza davvero incongrua: l‘idea, che l’esecutore con la sua esecuzione casta e perfetta dovrebbe far tralucere quale essenza prima e ultima dell’opera, se colta davvero nella sua originarietà, non sarebbe ancora musica; e quest’ultima, raggiunta la dimensione sonora che le è propria, si configurerebbe come un’eco sensibile, secondaria, di qualcosa di molto più puro. 

E un ulteriore aspetto complica e rovescia la faccenda: il medesimo imperativo di fedeltà a un’imperitura idea del pezzo, quando attinta alla luce di un idealismo meno contemplativo e più faustiano, conduce a pensare la musica prima di tutto come scontro di grandi forze dello spirito. Tale esigenza, assunta a principio interpretativo, governa effettivamente non solo grandissime esecuzioni, ma anche autorevoli posizioni di ascoltatori illuminati e colti: qui le imprecisioni, che “scappano” all’interprete per la foga, sono addirittura segno di un’intelligenza filosofica, musicale, dinamica, capace di una teleologia di potenze che deve essere messa in campo prima di ogni cosa, anche delle note giuste!

Permettetemi di condividere un exemplum forse non precisamente calzante in questo senso (sono calzanti, invece, quasi tutte le interpretazioni beethoveniane di Edwin Fischer), ma a suo modo divertente ed eloquente. E’ un racconto di Arthur Rubinstein: lui stesso spiega chiaramente quel che vuole mostrarci! L’improntitudine del concertista rende un’idea che prescinde completamente dalle note esatte della mano destra: ma l’idea c’è, eccome…senza che il pianista abbia idea delle note giuste!

https://www.youtube.com/watch?v=UTKVeEYSp9U

Ciò ci introduce al problema della prassi, alla questione della contaminazione (quanto necessaria!) dell’atto interpretativo con materia, circostanze, narrazioni, soggetti; e intenzioni comunicative ed etiche, e ricadute sociali e politiche importanti. Salvatore Pugliatti, lo vedremo la prossima volta sia pure introducendo ora qualche cosa, non vi si sottrae. Diciamo, forse più precisamente, che la sua posizione filosofica, come si vedrà, è gravida di molte conseguenze che superano le reali intenzioni speculative del filosofo: eppure risultano fecondamente implicate entro la strada che egli apre, e che si connette ad altro.

Salvatore Pugliatti è allievo di Giovanni Gentile: e in omaggio al suo credo attualistico pronuncia una sentenza opposta a quella finora esaminata. Dice: l’interprete crea.

A prima vista la cosa lascia perplessi. Ma no, è evidente: la sua, quella dell’interprete, è un’arte applicata a qualcosa che esiste già; l’atto dell’interpretare dipende in toto da un atto precedente, il comporre: quello sì, è creare. Certo. Non appena però si vada più a fondo – tolti di mezzo tutti gli interpreti la musica esisterebbe ancora? E l’opera 111 è oggi tale e quale uscita dalla penna di Beethoven (naturalmente in un senso imprescindibile lo è), o piuttosto va detto anche che presente, futuro e interpretazioni di interpretazioni costruiscono retroattivamente il passato – con tutto il peso che una tale affermazione ermeneutica comporta? E interpretare, attualizzare, è faccenda solo intrattenitiva, esercizio di stile (consiste fondamentalmente nel ricreare contesti) oppure è altro? E comunque: sarebbe davvero possibile celebrare un contesto integralmente filologico? Ancora: questo qualcosa che esiste già, cosa che nessuno potrebbe mettere in dubbio, in quale forma esiste, e dove è, prima di essere attualizzato?  – non appena si vada un po’ più a fondo, dicevamo, le risposte non sono più così piane e semplici.

Nella prossima puntata cercheremo dunque di indagare radici e ramificazioni di un pensiero che osa concepire, assai audacemente, l’interpretazione come creazione.