Antinomia dell’interprete / Filosofia dell’interpretazione musicale

Si crede in genere che filosofo e musicista abitino mondi interiori profondamente dissimili, e che le due figure siano tutt’al più accomunate da una certa estraneità al mondo reale: l’uno, il filosofo, sarebbe avulso dal mondo e dallo scorrere quotidiano e politico della vita perché perduto entro speculazioni tanto alte quanto inapplicabili alla realtà; l’altro, il musicista, sfogherebbe la propria interiorità (non meglio specificata) in colloqui con se stesso in cui prevale uno spontaneismo immediato e vagamente ispirato, ma appunto perciò troppo personale perché la sua attività possa essere capace di ricadute significative sulla concretezza dell’esistenza, da cui egli pare, piuttosto, saper felicemente evadere.

Il tasso di luoghi comuni e cliché è qui altissimo. In particolare non è vero il primo assunto: soprattutto se si considera quella strana ancillare attività musicale che è l’interpretazione, si scorge non solo una sostanziale somiglianza tra filosofo e musicista, ambedue interpreti dell’essere, ambedue ingaggiati in un confronto con l’Altro cui è necessario riconoscere vari volti (storico, mistico, personale, oggettivo, soggettivo, strutturale); ma anche una comune dinamica relazionale, un essere rapporto, un sentirsi tramite che è tutt’altro che appannaggio di uno spirito sdegnosamente speculativo o perso entro poetiche autoespressive incomprensibili ai più. Filosofo e musicista hanno, piuttosto, la commovente passione del mondo: desiderano e provocano fecondità di emozioni e grandi sommovimenti ideali; sono potenti evocatori di futuri possibili e custodi di un passato teoretico e spirituale assai vivo, in cui è lecito supporre di dover riporre, oggi, molte speranze. Ambedue le figure, sia pure considerate in senso generalissimo, senza ricorrere ancora ad esempi concreti, parlano un linguaggio che è già traduzione d’altro, che è resa di un dire che chiede d’essere annunciato e metabolizzato e compreso, che apre a grandi ulteriorità, che fonda e rifonda il mondo persino in senso cosmologico, e fa baluginare salvezza e sommovimenti messianici: così sono la musica agìta e la vera filosofia.

Appunto perciò questi due sensazionali dicitori dell’essere – entro quel linguaggio che è sempre più del linguaggio stesso – questi esseri mimetici e profetici, sono donne e uomini estremamente inquieti, sensibili e ipersensibili, antinomici, ricettivi, generosi, complessi.

Mio compito è qui parlare dell’interprete musicale: ma mostrandone costantemente le attinenze alla filosofia. Non solo desidererei rendere chiaro il fatto che l’interpretazione musicale può essere assunta a buon diritto a branca dell’ermeneutica; ma vorrei segnalare che è vero anche l’inverso: che cioè l’interpretazione musicale può condurre la filosofia oltre se stessa, e costituire una voce importante a traino di certi aspetti chiarissimi all’interprete musicale per natura, per pratica esistenziale e performativa, per ragioni sociali e umane.

Interprete musicale: labor quotidiano e volo d’aquila. Questi i due poli entro cui si muove la vita privata di un musicista che riconosca in sé la vocazione alla interpretazione più che alla composizione. Ogni giorno l’interprete coltiva il suo approccio fisico e quasi ginnico al proprio strumento (anche quando questo fosse la sua voce: anzi, si tratta di caso particolarmente intenso) in rapporto a ciò che sta studiando: il suo lavoro è metodico; il bisogno di suonare (questo strano verbo che Schumann considerava intransitivo e riflessivo) è quasi fisico. Ma ecco, a ora incerta egli è visitato da un volo d’aquila che si può a buon diritto chiamare ispirazione, illuminazione, visione, salto. È strana forma di rivelazione: è un dover fare, e non solo un concepire; è un contemplare ma, implicitamente, un fare tattile, espressivo, geometrico, che tende verso il telos di ogni studio: l’annuncio pubblico, la condivisione. L’ente che il pezzo è, è ora tale per l’interprete, è “la sua testimonianza irrefutabile”, come amava dire Celan: ella, egli ha l’impressione di conoscerne ogni anfratto, di dominarlo come dall’alto, di percorrerne le sezioni a volontà – a ritroso, en avant, comparando e decidendo, e ascoltando necessità di equilibrio che tendono a correggersi da sole, come barometri infallibili di una verità che ora pare dettare legge: l’interprete porta la visione – questa strana forma di visione dinamica, che muove, che abita, che sconvolge, che urge, che distrae, che non lascia tranquilli – anche nei posti più impensati, affollati, caotici, anelando spesso al silenzio e al ritmico passeggiare solitario, a contatto con la natura. La musica lo ruba alla parola e lo comanda. Da ora in poi sua ambizione è riprodurre in pubblico quella visione ricevuta in privato: nutrirla, preservarla; ma soprattutto solidificarla, poiché quella riproduzione va fatta in condizioni anomale, emotivamente alterate, difficili, eccitanti: va fatta in concerto. E ciò cui egli deve dar forma non è la descrizione dell’opera, ma un farla che coincide con la trasposizione dei segni in vera musica, in una parola con il più decisivo mutamento d’essenza: è far divenire musica ciò che senza l’interprete resta muta intenzione, archeologia, non-suono. E il pezzo è forma, non personaggio: è ente che ci giunge sulle spalle di interpretazioni, storicamente condizionato in vari sensi e modi, ma, indiscutibilmente, da far vivere ora, da portare all’altezza dei nostri giorni; di più: da annunciare, da costruire come ectoplasma che vive e si agita e si erge ad architettura transeunte mentre è fatto. E chi lo fa, se non l’interprete, con ogni sua propria risorsa, e in quella pericolosa condizione performativa che è il concerto pubblico?

Concerto: evento esaltante e insieme estremamente preoccupante, aperto al rischio, indecidibile a priori riguardo agli esiti e agli effetti; evento che espone l’interprete a una luce impietosa, che ne mostra lati insospettabili, ne narra storie; ne testa autenticità, sincerità d’ispirazione, concentrazione, coraggio, pulizia interiore – tutti parametri che possono mutare ogni sera, imprevedibilmente, a ogni concerto: lo sappiamo, è materiale sensibilissimo ai marosi dell’inconscio, che non si domina mai completamente. Il concerto vincola l’interprete a un tempo paradossale: tempo della libertà, che trascende il quotidiano, terribilmente codificato dal rito ma aperto alla più pura contingenza, al cui laccio è preso tanto l’interprete quanto il pubblico, coinvolto nel qui-e-ora dell’esecuzione.

Fascino, irripetibilità, magia, corpo mistico della musica e presenza fisica dell’interprete che quel corpo è e fa: eppure questo fare che è un artigianato, un rifare: quanto è di creazione, quanto di esecuzione in tale evento? L’evento-concerto ha in sé qualche cosa di funambolico, di spettacolare, di circense, di feroce, come ebbe a dirne Glenn Gould; eppure un concerto ben riuscito è tremendo anche nel senso illuminante, estetico e quasi religioso del termine: è dono da cui, a volte, si esce arricchiti, trasformati, con nuovo, segreto, luminoso senso dell’esistenza.

Molto è da indagare, poste queste dense basi. Quali le fonti filosofiche dei nostri immediati appuntamenti? Hannah Arendt, Platone; e, tra gli interpreti, in primis, Glenn Gould, Claudio Arrau: il primo assolutamente contrario all’idea della performance pubblica, con importanti motivazioni etiche; il secondo altrettanto assolutamente risoluto ad accettarne le sfide psicologiche, emotive, di nuovo etiche, ed esistenziali. Sullo sfondo, due grandi figure platoniche e preplatoniche: l’Hermeneia e la Mimesis. Ci occuperemo, però, di molto altro ancora.